Oltre la Liguria
Articolo di Pierpaolo Baretta pubblicato da Riformismo e Solidarietà.
In politica la differenza tra il meglio e il meno peggio è fondamentale: valori, programmi, relazioni qualificano la distanza tra queste due prospettive e noi cittadini dobbiamo sempre chiedere il meglio alla politica. Ma, appena si avvicina il momento del voto questa differenza si relativizza e, se riteniamo che vincere le elezioni per governare sia decisivo per portare avanti le nostre idee e progetti, il meno peggio acquista una importanza che non gli daremo per tutto il resto del tempo.
Ho letto che molti americani voteranno Harris perché la considerano il meno peggio rispetto a Trump… speriamo siano tanti! Indro Montanelli, molto tempo fa, spiegò, da par suo, questo concetto proponendo, addirittura, di… turarsi il naso. Questo approccio non riguarda necessariamente la qualità dei candidati. Harris è tutt’altro che il meno peggio; come non lo era Orlando. Semmai, riguarda la loro fisionomia politica. Nel caso della Liguria, in un periodo nel quale prevale il distacco dei cittadini dalla politica e dalle Istituzioni, che porta ad un astensionismo senza precedenti, è meglio candidare un politico o meglio un civico?
Paolo Feltrin, nella intervista sulle elezioni in Liguria pubblicata su questo sito, attribuisce a questa scelta (centro destra un civico, centro sinistra un politico!) un peso rilevante nella sconfitta di Orlando, che con soli 8 mila così di scarto è arrivato al “quasi gol” di Carosio, ma è un politico nazionale di lungo corso e, perciò, seppur ligure, percepito meno vicino al territorio di quanto non lo sia Bucci, che è un Sindaco, quindi un… civico per eccellenza! Non penso si debba generalizzare, ma il tema si pone.
Ma non basta. Per competere ci vogliono idee e persone. Però, nessuno ormai dispone da solo dei voti sufficienti per vincere. Servono alleanze, coalizioni… convivenze. Non servono personalismi, narcisismi, egoismi… Non sempre stare tutti insieme è il meglio, ma, dal punto di vista elettorale, è comunque sempre il meno peggio. Il centro destra sembra più attrezzato del centro sinistra a considerare tutto ciò come una normale procedura elettorale. Le cronache ci dicono che tra FdI, Lega e Forza Italia le differenze sono molte e significative. Su temi cruciali, quali l’Europa, l’immigrazione, i diritti, le prospettive economiche, le diversità tra Salvini e Tajani sono addirittura “ideologiche” (così le definisce Feltrin nella citata intervista).
Eppure, queste diverse idee di Paese e di società, vengono gestite come se fossero normali scambi di opinioni all’interno di un comune denominatore: il potere. Questo li porta a manifestare, anche pubblicamente, le loro differenze, ma senza mai superare il punto di rottura. Il che gli permette di presentarsi diversi, ma uniti. Ovviamente, oltre una certa misura, è questo è il caso, questo modo di fare politica è ipocrita; ma resta il fatto l’opinione pubblica, che pure vede le differenze, apprezza lo sforzo unitario.
A ben vedere, le differenze nel centro sinistra sono meno profonde. Tutte le componenti della coalizione che sta all’opposizione del governo Meloni, sono europeiste; favorevoli ai diritti di cittadinanza per gli immigrati e alla diffusione di quelli sociali. Ovviamente le differenze ci sono… molte sul come raggiungere gli obiettivi… ma non tali da impedire, volendo, piattaforme condivise. Eppure, non si riesce a trovare il bandolo di questa matassa. Il punto è tutto qui: i veti, i protagonismi personali, le incompatibilità a priori, le rotture, hanno stufato! E anche nella campagna elettorale ligure hanno pesato. Tanto più che col centro sinistra, che ha sempre voluto dare una immagine di virtuosità, gli elettori sono più severi. Le responsabilità, quindi, sono maggiori. Ma non ci sono alternative alla unità dello schieramento.
Anche se il risultato delle singole liste – che ci consegna uno scarto notevole tra il 28% ottenuto dal PD e i modesti risultati delle altre liste di sostegno (6% della sinistra, 5% Cinque Stelle), compresa quella del candidato (5%!) – pone esplicitamente il problema della identità e rappresentanza di quell’elettorato che – diciamola così – sta alla destra del PD (e a sinistra di Forza Italia), che non trova casa e si rifugia nell’astensionismo. Se questi scarti si confermeranno anche in Umbria e in Emilia Romagna, le liste minori dovranno definire il loro futuro. Ma il PD si deve affrontare in prima persona la questione “centrista”, finora lasciata ad altri e decidere se appaltare il compito di riaggregare “quel volgo disperso che nome non ha”. Ma a chi? O, offrirgli in proprio una sponda, assumendo un profilo più marcatamente riformista.
Per scegliere bisogna prima chiedersi chi sono i moderati? E per rispondere bisogna evitare due errori: pensare che i moderati siano più ceti medi che classi popolari e che siano più … tecnocratici che idealisti. Chiarito ciò, per quale motivo il PD, forza popolare e di governo, dovrebbe appaltarli e non considerarli parte del proprio progetto?