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  • Richard Gere

La Global Sumud Flotilla è un'operazione gandhiana

Intervista di Vanity Fair a Richard Gere.

Richard Gere è in un elegante albergo nel centro di Milano. Prima di ripartire per la Spagna, dove si è trasferito da qualche anno con la moglie Alejandra María Silva, con cui ha due bambini piccoli, si siede per parlare del film sul Dalai Lama che ha prodotto. Si intitola Dalai Lama – La saggezza della felicità. Un viaggio intimo con Sua Santità il XIV Dalai Lama, che a 90 anni condivide riflessioni universali sulla pace e sulla gioia interiore.

Il Dalai Lama parla di compassione. Ma come si concilia la compassione con la rabbia e la disperazione che proviamo guardando le immagini di Gaza?
«Tutti noi dobbiamo prenderci la responsabilità. Se restiamo in silenzio, aiutiamo solo i cattivi. Se siamo muti e non facciamo nulla - e con “non fare nulla” intendo anche non usare la nostra voce - allora favoriamo chi commette ingiustizie. A volte abbiamo una voce piccola e la usiamo; altre volte qualcuno ha una voce più forte. Ora io ho una voce più forte, quindi la uso. Ma può arrivare il momento in cui bisogna mettere anche il corpo, come ha fatto Gandhi, per fermare certe cose. È folle ciò che sta accadendo. Non è solo Netanyahu che deve andarsene - anche chi continua a permettere certi atti devono lasciare il posto - e abbiamo anche un presidente negli Stati Uniti che, a mio avviso, sta facendo male. Molti di noi non capiscono cosa stia pensando: sta distruggendo gli Stati Uniti, l’ordine mondiale, il pianeta. Comunque, dobbiamo farci sentire. La menzogna che i cattivi vorrebbero raccontarci è: “Non posso farci nulla.” È falso. Possiamo fare moltissimo, ma serve la comunità: unirsi, perché un singolo può sentirsi debole, ma insieme siamo forti. Dobbiamo esprimerci».
Che cosa pensa di Netanyahu?
«Lui parte da una prospettiva che ritengo aberrante: nelle sue parole sembra che i palestinesi non siano persone, li tratta come animali, ed è completamente falso e folle ciò che dice. Gli israeliani hanno delle responsabilità; sono una forza occupante e i palestinesi faticano a respirare. Certo, la storia degli israeliani è una storia di enorme dolore, ma questa non è una ragione per riversare il loro dolore sui palestinesi. Il discorso del nostro presidente mi è sembrato una delle cose più folli che abbia mai sentito: sembra che ci sia qualcosa che non va mentalmente ed emotivamente in lui».
Che cosa pensa della Sumud Globa Flotilla?
«È un simbolo importante. Quello che possono portare, cibo e medicine, è poco rispetto al bisogno enorme, ma il simbolo è chiaro: Palestina e Israele non sono luoghi isolati, fanno parte del mondo e il mondo se ne occupa. Il messaggio diventa più forte quando le persone si mettono in gioco. Sono individui che si uniscono per prendere posizione, mettendo in gioco le loro vite. È una iniziativa gandhiana: non violenta, ma che richiede sacrificio e responsabilità, spinta dall’amore per tutti. Io continuo a dire che il movimento che vogliamo è tale per cui anche i cattivi possono essere salvati».
Si ricorda la prima volta che ha incontrato il Dalai Lama?
«Sì. A quei tempi studiavo lo zen, ma avevo letto alcuni libri che mi avevano profondamente segnato: i primi testi sul buddhismo tibetano in inglese, curati da Evans-Wentz negli anni venti. Insomma, decisi di andare a vedere il Dalai Lama, che allora viveva in esilio in India. I cinesi avevano invaso nel 1950 e il Tibet era occupato da una forza brutale del Partito Comunista cinese. All’epoca era molto difficile arrivare lì: non si poteva semplicemente volare. Era un viaggio in treno di tutta la notte, pessimo, poi bisognava andare a Pathankot, nel Punjab, e risalire verso l’Himachal Pradesh, trovare la strada per le montagne, e una volta lì serviva qualcuno che ti portasse a McLeod Ganj, che è in alto, circondata da montagne innevate. Era periodo di monsone, pioveva sempre, e fu faticoso. Sono stato lì per alcune settimane prima di avere un’udienza con Sua Santità.»
Alcune settimane?
«Oh sì, diverse settimane».
E cosa ha fatto in tutto quel tempo?
«Cose incredibili. Ho conosciuto il fratello più giovane del Dalai Lama, che mi ha ospitato. Ho visto praticamente tutta la comunità tibetana in esilio: mi hanno portato in montagna da alcuni meditatori eremiti che vivevano in grotte, ho conosciuto gli artigiani, i negozianti, i monasteri che erano stati ricostruiti dopo che i cinesi avevano distrutto oltre 6.000 monasteri e conventi. Così ho avuto un assaggio della cultura tibetana».
E il Dalai Lama?
«Alla fine l'ho incontrato, ed è stato straordinario per quanto fosse semplice. Stavamo seduti e parlavamo. Lui stava parlando con suo fratello quando ha chiesto: “Chi è quest’uomo?”. E suo fratello ha risposto».
Non conosceva la star hollywoodiana Richard Gere?
«No, no. Poi ha detto: “Oh, è un attore”, e ha cominciato a farmi domande sull’interpretazione, sulle emozioni — rabbia, gelosia, odio, orgoglio — e su come gli attori le evocano. Io non volevo parlare di queste cose, volevo parlare di illuminazione, ma le sue domande erano molto dirette e importanti. Mi hanno aiutato a guardare ciò che faccio come attore e, più in generale, ciò che fanno tutti gli esseri umani: noi creiamo queste emozioni. Non sono innate in noi; è il nostro modo di vedere il mondo, il funzionamento del cervello, le abitudini che le generano. In modo innato siamo molto più ampi, più vasti, e in misura più naturale amorevoli, gentili e generosi».
Che cosa l’ha spinta a realizzare questo film?
«I due registi meravigliosi, uno dei quali conoscevo da molto tempo: Manuel Bauer è un fotografo che segue Sua Santità da decenni. Sono molto orgoglioso di questo lavoro: è, innanzitutto, un buon film; in più quest’anno è il 90° compleanno di Sua Santità, ed è importante mettere in evidenza la sua vita straordinaria. E poi guardando il mondo — la violenza, l’ignoranza, il nostro modo di comportarci e di parlare l’uno con l’altro — penso che il messaggio del Dalai Lama possa avere un effetto positivo per correggere parte della follia che osserviamo oggi».
Si considera una persona felice?
«Sì».
Per quale motivo?
«Sono fortunato ad avere un corpo umano. Il corpo umano è una cosa rara: nell’universo degli esseri viventi ci sono molti insetti, molti pesci, tante altre forme di vita. Avere un corpo umano con intelligenza significa avere anche la capacità di soffrire, e la sofferenza ci fa pensare. Se tutto andasse sempre bene, non useremmo molto l’intelligenza. Quando soffriamo o vediamo sofferenza, ci facciamo domande: perché c’è sofferenza? Come possiamo cambiarla? La rinascita umana è una grande opportunità».

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