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  • Gianrico Carofiglio

I giornali sono parte della democrazia

Intervista della Stampa a Gianrico Carofiglio.

L'equilibrio fragile del pluralismo, la libertà di stampa come cartina di tornasole della democrazia, il potere discreto del linguaggio capace non solo di descrivere la realtà ma anche di costruirla e dunque tanto appetibile per la politica. Gianrico Carofiglio, che alla qualità del discorso pubblico ha dedicato la riedizione del suo classico «Con parole precise» (Feltrinelli), ragiona con La Stampa nelle ore più buie del giornale e della comunità che dal basso, con tenacia, lo difende.

Cosa significa la messa in vendita di un gruppo come Gedi, un pezzo di storia dell’informazione italiana opzionata oggi da un tycoon greco che già controlla l’impero mediatico Ant1?
«I giornali non sono oggetti neutri: sono pezzi di infrastruttura democratica. Quando un gruppo così rilevante cambia proprietario, cambiano anche gli equilibri che sostengono il pluralismo. Non è un dramma in sé, ma è un fatto che richiede attenzione. Quanto al possibile acquirente straniero, non mi interessa l’identità nazionale. Mi interessa il progetto: vuole fare informazione o vuole orientare il dibattito pubblico secondo un’agenda diversa? È questa la domanda decisiva».
Quanto contano nel pieno della rivoluzione informativa guidata dall’intelligenza artificiale i media tradizionali, da una parte “giornaloni” messi alla gogna sui social network ma dall’altra estrema frontiera di un’interfaccia reale, fisica e potenzialmente interfacciabile a differenza dei “bot”?
«Proprio mentre l’informazione digitale esplode, cresce il bisogno di luoghi riconoscibili e responsabili, dove chi scrive risponde di ciò che scrive. I giornali presi in giro sui social restano i soli soggetti che possiamo chiamare in causa quando c’è una manipolazione, che rispondono al principio di responsabilità, essenziale in democrazia».
La libertà di stampa è ancora un valore socialmente condiviso in Occidente, laddove gli Stati Uniti barcollano e in Europa si affermano le democrature alla Orbán?
«Negli Stati Uniti, assistiamo a una delegittimazione sistematica dei media. In Europa siamo di fronte a tentazioni analoghe. La libertà di stampa non scompare con una vendita: si consuma per abitudine, quando ci si rassegna all’idea che politica e poteri economici abbiano titolo a intervenire sull’informazione».
A che punto di questa potenziale ma resistibile discesa agli inferi è l’Italia?
«Il pericolo è rappresentato da una rete di pressioni e minacce - politiche, economiche, giudiziarie, anche culturali - che spingono a volte verso l’autocensura. Un tema di cui i tanti giornalisti coraggiosi che ci sono nel nostro Paese devono essere sempre più consapevoli».
Come si garantisce l’informazione di qualità nella giungla mediatica contemporanea, tra le fake news e l’onda populistico-ideologica che, per esempio, due settimane fa ha spinto l’assalto alla sede de La Stampa?
«Lavoro rigoroso e una comunità di lettori che non cerca solo conferme alle proprie convinzioni. Le fake news prosperano perché offrono rassicurazioni. L’informazione di qualità fa il contrario: mette in discussione. Gli assalti, simbolici o fisici, contro i giornali sono un segnale preoccupante, ma anche un errore strategico: mostrano quanto i populismi temano tutto ciò che non controllano».
C’è una guerra in corso per il controllo dell’informazione, dall’America trumpiana nemica dei giornalisti critici alla Russia raccontata da Marija Zacharova fino alle grandi piattaforme come X?
«Sì, ed è una battaglia che si combatte soprattutto sul piano della percezione. In alcuni Paesi si allontanano fisicamente i giornalisti, in altri li si delegittima, altrove si rende l’ecosistema informativo così confuso da far sembrare equivalenti la verità e la menzogna. Le piattaforme ovviamente non sono neutrali: hanno interessi economici giganteschi e una filosofia implicita, spesso opaca. È ingenuo pensare che non influenzino la qualità della democrazia».
Cosa sarebbe la democrazia senza la libertà di stampa?
«Non sarebbe. Senza una stampa libera, il potere diventa un monologo e i cittadini diventano sudditi».
Quali sono oggi le clausole di sicurezza a tutela della democrazia?
«Indipendenza della magistratura, libertà dell’informazione e una cittadinanza attiva che non delega tutto alla politica».
Siamo giunti all’epilogo della rivoluzione lanciata da Gutenberg, con i media mainstream al tramonto e quelli digitali non ancora strutturati per resistere alle sirene dei populismi?
«I media digitali non sono immaturi: sono semplicemente più facili da manipolare. E i media tradizionali non sono finiti: stanno cercando una forma nuova. Io confido che la troveranno».
Gli insulti politicamente scorretti ai giornalisti sdoganati dal presidente americano Trump rappresentano lo spirito dei tempi?
«Insultare i giornalisti è un modo facile per non rendere conto del proprio operato. Di quello che si è fatto e soprattutto di quello che non si è fatto».
Crede che il modello politico vincente sia oggi quel Putin che ha rispolverato la propaganda di memoria sovietica facendosi beffa del mito del quarto potere?
«La propaganda è rassicurante: propone capri espiatori e storie banali e falsificanti. La democrazia vive di dissenso e di contraddizioni».
In che modo si è sgretolato il patto sociale su cui, a partire dalla libertà di stampa, si è costruita la democrazia? E, sempre che sia possibile, come si ricostruisce?
«Si sgretola lentamente: per sfiducia, per polarizzazione, per la sensazione che la politica non rappresenti più i cittadini e che l’informazione sia parte del problema. Ricostruirlo è difficile ma possibile, a una condizione: che la società recuperi l’idea che la verità è un bene comune».
Che valore ha oggi la parola, somma vetta della civiltà pensante brandita sempre più spesso come una clava per minacciare le donne, le minoranze, gli avversari politici, l’altro diverso da sé?
«La parola ha un valore decisivo e per questo oggi viene usata con tanta violenza. Il linguaggio non descrive soltanto la realtà, la costruisce. Se lo deformiamo, deformiamo anche lo spazio pubblico. Serve un lavoro quotidiano di manutenzione delle parole che è una forma di manutenzione della democrazia e della libertà».

 

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