Sporchiamoci le mani per il bene
Intervista di Avvenire a Don Luigi Ciotti.
La tregua armata non basta, «la logica di deterrenza va scardinata». Semplicemente perché «una pace vera non può essere fondata sull’equilibrio delle forze». Don Luigi Ciotti va subito al cuore della questione, e come fa da sempre non rinuncia a mettere in discussione uno dei concetti “mainstream”.
Il 10 settembre compirà 80 anni, e anche se non ama particolarmente festeggiarsi, dalla Certosa di Avigliana dove Libera ha radunato gli amici sacerdoti e vescovi come ogni anno a fine estate, si concede ad Avvenire in una lunga intervista, in cui ripercorre e mette insieme i grandi nodi che ha affrontato in una vita passata a costruire e al tempo stesso a scardinare.
A partire dalle guerre, naturalmente: Come diceva don Tonino Bello, la pace va costruita, non bastano parole e proclami. Come farlo, oggi, sui tanti fronti di guerra e sui nostri fronti sociali e personali?
La pace va costruita su tre fronti. Nel pensiero: dobbiamo pensarla possibile non come sospensione temporanea del conflitto, ma situazione di giustizia duratura. Nel linguaggio: disarmare le parole per disarmare i comportamenti, come ha detto Papa Francesco. Senza scordare che la pace ha bisogno anche di silenzio, preghiera, digiuno. Infine nelle pratiche: pacifista non è chi vuole “uscirne pulito” senza compromettersi col male, ma chi si sporca le mani tutti i giorni per il bene. Come chi soccorre i migranti in mare, cura le persone malate senza mezzi, educa i giovani a relazioni sane, rifiuta di caricare i container di armi nei porti, coltiva le terre sottratte alle mafie, respinge l’ordine di combattere per non uccidere persone innocenti. La pace si costruisce con gli strumenti della pace: la diplomazia, il dialogo, gli aiuti umanitari, le giuste garanzie di sicurezza per le persone, i popoli, le minoranze.
Siamo tutti molto preoccupati ma anche incapaci di uscire da schemi e parole tradizionali. Forse avremmo bisogno di litigare un po’ di più con la nostra coscienza?
Esatto. La pacificazione delle coscienze è la peggiore nemica della pace fra le persone e i popoli! Quel sentirsi sempre dalla parte giusta, intoccabili, “a posto”. Invece le coscienze inquiete, sempre piene di dubbi e domande, sono quelle capaci di suscitare cambiamenti.
Anche di perdonare? Ne parliamo molto, ma…
Per noi cristiani il perdono è o dovrebbe essere una meta, qualcosa verso cui tendere sull’esempio di Gesù in croce. Se parliamo della dimensione civile del perdono verso chi ha commesso un crimine, mi sembrano illuminanti le parole della “Misericordiae Vultus” di Papa Francesco: giustizia e misericordia “non sono due aspetti in contrasto fra di loro, ma due dimensioni di un’unica realtà”. “Chi sbaglia dovrà scontare la pena, solo che questo non è il fine, ma l’inizio della conversione, perché si sperimenta la tenerezza del perdono”. La misericordia non giudica, non respinge. Accompagna le persone ad affrontare le proprie fragilità, aiutandole a cambiare.
Ma è possibile perdonare tutti? Oggi ce lo chiediamo se guardiamo alle guerre, lei nella sua vita ha affrontato il dolore e la richiesta di verità e giustizia delle vittime della mafia..
La misericordia non esclude la fermezza, il diritto delle vittime e delle loro famiglie di essere riconosciute e tutelate nei loro diritti. Gli sconti di pena per i collaboratori di giustizia sono un discorso a parte che a volte suscita fraintendimenti. Non implicano l’idea di “perdono”: sono frutto dell’intuizione di magistrati come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che credevano nella possibilità di combattere le mafie dall’interno, offrendo ai loro esponenti di rimettersi in gioco e rinnegare il male commesso.
Lei sostiene di essersi sempre sentito parte della Chiesa anche quando parte della Chiesa non lo capiva, accettava, sosteneva. Perché “un irregolare” (come lo definisce monsignor Galantino) non ha mai “rotto” con la Chiesa?
La mia fedeltà alla Chiesa è semplice fedeltà al Vangelo. C’è chi guarda alla Chiesa come istituzione, ma la Chiesa è innanzitutto una comunità di persone che credono e si affidano alla Parola di Gesù. Se continuo a riconoscermi in quella Parola, e farne la mappa della mia vita, continuerò a sentirmi parte di quella comunità, cioè sentirmi a casa dentro la Chiesa, pur nelle differenti sensibilità su alcuni temi o alcune forme di espressione. Lo dico con molta umiltà e molta riconoscenza per ciò che la Chiesa, a partire da quella torinese, mi ha dato.
I giovani sono alla ricerca di senso, di impegni concreti e di adulti che “accompagnino”. Cosa è cambiato rispetto a 60 anni fa quando col Gruppo Abele avete cominciato proprio coi giovani?
Rilancio: cosa è cambiato da quando Don Bosco, in quella stessa Torino ma centovent’anni prima, ha avviato il suo incredibile cammino accanto ai giovani più emarginati? Tutto e niente. Sono cambiati i volti, le provenienze, le ragioni dell’emarginazione, ma non il bisogno di riferimenti educativi credibili, di opportunità di studio e lavoro, di riconoscimento e riscatto sociale. Col Gruppo Abele ci siamo inventati dei percorsi inediti per rispondere a problemi che si presentavano in forma nuova, ma avevano radici storiche.
Oggi c’è chi propone di abbassare l’età della punibilità dei giovani...
Ancora oggi basterebbe rileggere don Bosco per capire che la repressione da sola non serve, anzi peggiora le cose. Lui diceva che “un sistema repressivo può impedire un disordine, ma difficilmente può rendere migliori i giovani delinquenti”. E se non aiuti le persone a cambiare, non cambieranno mai le situazioni. Abbassare l’età della punibilità non ha senso, dobbiamo piuttosto investire nella prevenzione dei reati minorili, e potenziare gli interventi di sostegno che includano anche le loro famiglie.
Spesso vediamo i giovani protestare, ma di solito vengono spesso accusati di non farlo nel modo giusto. Cosa direbbe loro e quali strumenti di disobbedienza si possono usare?
C’è il rischio di guardare i percorsi esistenziali dei giovani con gli occhi del passato. Dobbiamo invece cogliere i loro percorsi inediti, dentro i problemi di oggi. Ovviamente si tratta di restare dentro l’argine della nonviolenza. Ma da adulto, so che devo mettermi in una posizione di ascolto attento e non giudicante. Chi se la prende con le forme di disobbedienza dei giovani spesso guarda il dito per ignorare la luna. Su temi come il cambiamento climatico, le guerre o le ingiustizie sociali sono i giovani a fare la differenza, a indicarci con forza la necessità di cambiare i nostri stili di vita, produzione e consumo. Sono sempre loro a dire dei “no” importanti: no a una eccessiva richiesta di protagonismo produttivo, efficientismo fisico e psichico, no a una prospettiva basata sul “di più è meglio”.
Davanti a tanti giovani che si sentono fuori posto - come si è sentito lei quando era giovane - è possibile ribaltare lo sguardo e vederlo in modo positivo? Come chiave empatica e una spinta che porta ad agire?
Non esiste una strada sola verso l’impegno. Alla base, come dicevo, serve conoscenza. Capire il presente, nelle sue molte storture, ti dà l’innesco per volerlo cambiare. Poi certo vivere alcune ingiustizie o fragilità sulla propria pelle può trasformarsi nello stimolo a fare qualcosa per altri che le subiscono. Ma ognuno ha i suoi percorsi. L’essenziale come dico sempre è che quei percorsi si intreccino e arricchiscano a vicenda, perché il cambiamento sociale non è per navigatori solitari. I giovani questo lo capiscono bene: un altro grande motore del loro impegno è infatti la relazione, il ritrovarsi insieme a vivere visceralmente certe esperienze. Abbiamo ancora negli occhi le immagini del Giubileo dei giovani a Tor Vergata, ma anche quelle dei giovani che vediamo arrivare a migliaia ai campi estivi di Libera, con loro voglia di partecipazione e di ascolto.
La corruzione è sempre più diffusa. Le stesse mafie ne hanno fatto loro strumento più della violenza, eppure appare tollerata. Tutti parlano di legalità ma lei ripete spesso che è solo uno strumento verso la giustizia. Ce lo spiega?
È sbagliato vedere nel rispetto delle regole un fine a sé stante. La legalità è il mezzo, ma la giustizia sempre lo scopo. Dove per giustizia intendiamo l’uguaglianza dei diritti, dei doveri, delle opportunità e dei servizi. Le leggi le fanno le persone, e le persone a volte sbagliano. Quindi possono esistere leggi sbagliate, che contrastano coi dettami della coscienza e, nel caso di un cristiano, con la Parola di Gesù. Le norme italiane ed europee sull’immigrazione, con la loro disumanità di fondo, per quanto mi riguarda sono un esempio. La cultura della legalità deve distinguersi dal semplice legalismo, e affondare le radici in un profondo senso etico. Per questo la responsabilità individuale resta l’architrave del sistema.
L’assenza dello Stato nei confronti dei migranti rende più facile per le mafie approfittarsi della loro vulnerabilità?
Magari potessimo parlare di assenza dello Stato! La verità è che oggi lo Stato contro le persone migranti spesso si accanisce, con leggi e procedure che tendono a sospingerle dentro un limbo d’invisibilità, povertà e illegalità, di cui approfittano appunto i poteri criminali. Abbiamo alcune buone leggi, ad esempio quelle per il contrasto alla tratta o la legge recente contro il caporalato. Ma servono risorse, investimenti, controlli. Serve che l’Italia - e anche l’Europa - imparino a proteggere le persone, per trasformarle in cittadini fedeli e responsabili, anziché disperati al soldo delle mafie.
La droga, della quale non si parla più, se non come questione criminale e non sociale. Così come delle altre dipendenze: alcol, azzardo, ecc.. Ci stiamo assuefacendo?
Mettiamo la testa sotto la sabbia, approfittando del fatto che le dipendenze di oggi ci sembrano più “compatibili” con la vita quotidiana. Ma è un’illusione! Le dipendenze continuano a essere un dramma per tante persone e famiglie, a produrre costi sanitari e tensioni sociali. Abbiamo depotenziato i servizi terapeutici e la prevenzione è quasi scomparsa.