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  • Mario Delpini

Ricchi, oltre alle tasse pagate la decima al servizio dei poveri

Intervista di Avvenire a Mario Delpini.

Ai ricchi, «che diventano sempre più ricchi», chiede «di pagare non solo le tasse, com’è dovere loro e di tutti, ma anche la “decima”, cioè di sentire la responsabilità che una parte delle ricchezze sia offerta come culto a Dio e, quindi, come servizio ai poveri e alla città». Ai ricchi diventati tali, «e ci sono anche a Milano», grazie alle «ricchezze maledette, quelle realizzate con la droga, la ludopatia, l’usura, lo sfruttamento della prostituzione», chiede di «cercare vie di conversione e di restituzione, prima che sia troppo tardi, perché le ricchezze maledette rendono maledetto chi le accumula».

E alla società intera e alle istituzioni chiede di riconoscere «come bene comune la dimensione contemplativa della vita» e di promuovere «un’organizzazione della vita che favorisca il riposo, la sosta, la riflessione», mentre invece «si rischia di cedere alla spinta a fare della domenica un contenitore per qualsiasi cosa, anche continuare a lavorare, sottoposti alle esigenze commerciali», e mentre «tanta brava gente che lavora qualche volta è sopraffatta dal lavoro». Tutte richieste, queste formulate dall’arcivescovo di Milano, Mario Delpini – in questa intervista ad Avvenire raccolta assieme al capocronista Davide Parozzi – che si offrono come suggerimenti concreti per portare nella vita di ogni giorno e nella vita della società – e per portare fuori dalle chiese – l’appello alla conversione lanciato dal Giubileo che si apre il 24 dicembre prossimo.
Il Giubileo è un anno da vivere come “pellegrini di speranza”, come chiede il Papa. È un “tempo propizio per una società amica del futuro”, come lei ha auspicato nel Discorso alla città per Sant’Ambrogio. Che cosa ferisce e spegne la speranza, nella Milano e nell’Italia di oggi?
La speranza non va confusa con il volontarismo della fiducia o l’ingenuità dell’ottimismo: la speranza è risposta positiva a una promessa affidabile, che chiama ad una terra promessa e mette in cammino nel deserto. Chi fa la promessa è Dio. Se la civiltà europea, italiana, lombarda, escludono Dio, questo compromette la speranza. Se Dio non c’entra con la vita e la fede è una cosa privata, questo impedisce alla nostra società di desiderare il futuro.

Perché la Chiesa sembra a volte far fatica ad essere testimone di speranza?
Un primo motivo è che la Chiesa non è simpatica e la gente la ascolta con sospetto. Il messaggio cristiano come aiuto a capire il senso della vita non è un messaggio popolare. Da noi non ci sono persecuzioni, ma c’è tanta indifferenza. Poi: i cristiani non sono sempre così trasparenti nell’essere testimoni di Gesù Risorto e del suo messaggio di vita eterna. L’interesse per la vita eterna è scomparso dalla mentalità contemporanea. E talvolta anche i cristiani sembrano poco animati da questo desiderio. Tanto cristianesimo, com’è in terra lombarda, è molto impegnato nelle opere educative e di carità. Opere che non sempre si rivelano capaci di trasmettere le ragioni per cui le facciamo. Il Giubileo potrà aiutarci, se non lo viviamo come serie di adempimenti ma come grazia da ricevere.
Nella sua proposta pastorale 2024-2025 come nel Discorso alla città, lei invita a riscoprire la centralità della dimensione contemplativa della vita e ad assumere uno “sguardo contemplativo” sulla realtà. Un messaggio controvento, nella Milano e nell’Italia d’oggi…
Il Vangelo di Gesù ci ricorda che il sabato è per l’uomo e non viceversa. Dobbiamo ripensare al tempo, educare e educarci a vivere il tempo come ritmo offerto alla libertà – ritmo segnato dalle preghiere quotidiane, dai giorni del riposo, dalla domenica – perché il tempo non diventi ingranaggio in cui l’uomo è vittima. La dimensione contemplativa della vita è un bene comune. L’organizzazione della società favorisca il riposo, la sosta, la riflessione. E non si faccia della domenica un contenitore per qualsiasi cosa, piegato a esigenze commerciali.

Le nostre città sembrano sopraffatte dall’incertezza, dalla paura, dalla “stanchezza” – per riprendere la chiave di lettura del suo Discorso alla città – e troppe volte i quartieri fanno notizia solo quando accade qualcosa di negativo. Come reagire?
Ci vorrebbe un “corpo speciale” di giornalisti che, ogni volta che si dà una cattiva notizia su un quartiere difficile, si impegni a mostrare il bene e le eccellenze di quel quartiere. Non è servizio pubblico quello che mette in evidenza solo i fatti di cronaca nera. Ma questo non basta: serve un impegno della gente che vive nel quartiere – e continua a fare il bene senza interessarsi delle etichette – a coltivare l’arte del buon vicinato. A rendere desiderabile vivere in quel territorio come persone che si riconoscono, si aiutano, si rispettano. In terzo luogo: servono istituzioni amiche dei cittadini.

Milano, che dopo l’Expo 2015 era dipinta come “the place to be”, ora sembra diventata luogo da cui fuggire… Che ne pensa?
Io vedo un centro “espropriato” dalla folla impressionante dei turisti, come fossero i nuovi “padroni” della città. Quando poi vado nei quartieri, incontro la realtà delle parrocchie, degli oratori, delle Caritas, di tutti quelli che si prendono cura degli altri, di chi è debole e solo. E vedo tanta brava gente che lavora, e che a volte è sopraffatta dal lavoro, da ritmi insostenibili, dalle fatiche del pendolarismo... È la speranza ciò che ci mette in movimento, come ci ricorda il Giubileo, e che ci aiuta ad affrontare la fatica. Ma la fatica dev’essere sostenibile.

Anche lei, eccellenza, durante l’Anno Santo si prenderà un “tempo sabbatico” - com’è suggerito nella sua proposta pastorale 2024-2025 - per il riposo, o almeno per “staccare” dal carico delle attività ordinarie?
Sì, senz’altro. L’arcivescovo, per altro, si potrebbe dire che riposa sempre perché non lavora ma dà incarichi e fa lavorare – risponde sorridendo –. Anch’io mi prenderò del tempo, ad esempio dopo l’apertura del Giubileo, e non farò il viaggio missionario che di solito faccio dopo Natale. Vorrei che gennaio fosse, anche per me, un “mese sabbatico”. Poi, certo, qualcosa dovrò fare comunque...

A Milano, ancora più che altrove, la casa è sogno e incubo per molti. Perché la diocesi ha istituito il Fondo Schuster-Case per la gente?
Il Fondo non è e non vuole essere una soluzione al problema casa – la Chiesa non ne avrebbe i mezzi, per altro – ma una provocazione per lanciare un messaggio: non siamo destinati a subire gli eventi, di fronte ai problemi non basta lamentarsi, protestare o pretendere, ma ci si può dar da fare, ciascuno per la sua parte, in una alleanza per il bene comune. Noi non pensiamo che le istituzioni debbano fare tutto, riducendo i cittadini a “clienti”, ma che tutti si possa collaborare per il bene comune. Come Chiesa, già viviamo in altri ambiti – dall’educazione alla solidarietà – rapporti di alleanza con le istituzioni, le fondazioni e altre realtà.

Nel Discorso alla città, parlando dei fenomeni di sovraindebitamento che colpiscono tante famiglie milanesi e lombarde, ha detto che “il sistema del credito ha qualche cosa di malato”. Che fare per curarlo?
Non so dare soluzioni, che spettano agli studiosi e agli esperti, ma è chiaro che il sistema del credito ha qualcosa di malato. Al suo interno, mi pare sia in atto una ricerca riguardo a quella che viene chiamata finanza sostenibile, una finanza che non usa i soldi solo per fare altri soldi ma per sostenere l’economia. Io ho sempre avuto una simpatia per le banche mutualistiche, gli istituti di credito cooperativo spesso nati in area cattolica, dove il denaro si raccoglie dal territorio e si mette a disposizione del territorio. Banche che, se ho capito bene, restano un enigma per i banchieri d’Europa…

Come reagire alla sfida delle “ricchezze maledette”, come le ha chiamate nell’ultimo Discroso alla città, e che hanno infettato anche Milano?
È un tema che mi fa soffrire, perché queste ricchezze nascono dal male fatto agli altri. Sorvegliare e reprimere non basta: la risposta a questa sfida è anzitutto etica. Dobbiamo insegnare a tutti, a partire dal cittadino comune, che c’è il bene e c’è il male. E che tutti i cittadini sono chiamati al coraggio di denunciare, quando si è testimoni o vittime di usura o di altre sorgenti di “ricchezza maledetta”. Denunciare, fidarsi delle istituzioni, stringere alleanze. A chi si arricchisce in quel modo dico che le ricchezze maledette – frutto di sangue e di lacrime innocenti – rendono maledetto chi le accumula. Consideri sé stesso, guardi ai suoi figli: come fa ad andare avanti? Che futuro può nascere dal male fatto ad altri? Nel Vangelo c’è l’esempio di Zaccheo, che si converte, restituisce quanto ha preso indebitamente, dà ai poveri la metà di quanto possiede… Anche per chi ha accumulato ricchezze maledette c’è la possibilità della conversione. Spero che si lascino toccare il cuore, finché sono in tempo.
Caritas Ambrosiana ha compiuto 50 anni. Che cosa rappresenta questa realtà per la Chiesa, per la città, per le terre ambrosiane?
La Chiesa deve praticare il comandamento della carità e deve prendersi cura dei poveri. La Caritas è il modo con cui la Chiesa interpreta questa obbedienza a Gesù. Il suo modo di fare del bene non è l’elemosina, ma è la riabilitazione, è liberare il povero dalla povertà. La Caritas, dunque, è presenza che educa e provoca dentro le comunità cristiane, per ricordare a tutti i cristiani che hanno ricevuto questo comandamento del Signore. La Caritas è espressione della Chiesa che vive il Vangelo, ascolta il grido dei poveri e vuole liberarli dalla povertà.
Eccellenza, quale augurio desidera rivolgere ai lettori di “Avvenire” per il Natale e per l’anno che viene – e che è Anno Santo?
Mi fa molto piacere poter augurare di incontrare Gesù, di tenere fisso lo sguardo su Gesù, perché l’incarnazione del figlio di Dio – che celebriamo a Natale – vuol dire che il Dio invisibile si è reso visibile, quindi è una presenza reale nella storia. Tenere fisso lo sguardo su Gesù permette di essere pellegrini di speranza.

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