La fragilità ci accomuna tutti
Intervista di Vanity Fair ad Achille Lauro.
Anno 2001 o forse 2002, una sera come tante nella periferia romana. Lauro De Marinis, undicenne estroverso ma non spensierato, torna a casa con i capelli color biondo platino e sa che per questo verrà punito. Non aveva il permesso di farlo, l’ha fatto lo stesso.
Anno 2025, un pomeriggio come tanti nel centro di Milano. Lauro De Marinis, in arte Achille Lauro, sul set del nostro video guarda la foto di quel ragazzino fresco di tintura per assomigliare a un surfista e riflette a voce alta: «Avevo già capito tutto: essere chi volevo essere a qualunque costo. Ma allora era impensabile che mi avrebbe portato qui». Qui è una carriera da icona del nostro tempo. Qui sono milioni di streaming, cinque Festival di Sanremo, un Eurovision Song Contest, un’edizione di X Factor da giudice. Qui è il settimo album, Comuni mortali, fuori il 18 aprile, ovvero ballad brutalmente sincere e romantiche, racconti di vita e di tormenti, che hanno il potenziale per diventare grandi classici del cantautorato, a partire da Incoscienti giovani che ha conquistato l’Ariston un paio di mesi fa.
Perché Comuni mortali?
«Perché questo disco sottolinea la fragilità che ci accomuna tutti. L’ho scritto tra Los Angeles e New York: lontano da casa e dal vortice del mercato musicale, sono riuscito a guardarmi dall’esterno e a riflettere meglio da dove sono partito, come sono arrivato, a chi devo qualcosa. Infatti è pieno di dediche: agli amici, al grande amore, a mia madre Cristina».
Ha vissuto tante fasi: l’urban, l’elettronica, il punk, il rock… A che genere appartiene l’album?
«Lo definirei pop, anche se non vorrei: in Italia è sempre sminuente, però a suo modo Comuni mortali è pop, nel senso “del popolo”. In un panorama pieno di canzoni modaiole, simpatiche, da intrattenimento – che mi piacciono eh –, ho scelto di dare alle persone brani che fanno un po’ male all’anima».
In molti si mette parecchio a nudo, torna sui suoi drammi: la figura di suo padre, la brutta fine di alcuni compagni del quartiere…
«È stato facile rubare dalla realtà, liberatorio e coinvolgente: alcuni pezzi mi hanno smosso il magone, nonostante sia difficile che io pianga».
Quali brani?
«Cristina più di ogni altro».
Sua madre l’ha già ascoltato?
«Non ancora. Non gliel’ho fatto sentire. Non le avevo nemmeno mai detto che sognavo di diventare un artista, me lo sono tenuto dentro per dieci anni, fino a quando sono stato notato da tutti. Sono riservato, seppur estroverso».
Lo era anche da bambino?
«Sì, ero timido ma sveglio, tormentato ma vivace».
Da piccolo che cosa la faceva ridere e che cosa la faceva piangere?
«Mi facevano ridere gli amici, la compagnia. Mi commuovevano alcuni cartoni animati, sono sempre stato sensibile. Però la sensibilità non pagava nel mio mondo, specie durante l’adolescenza: mi vergognavo a piangere, a mostrare i sentimenti, ad amare».
Che mondo era il suo?
«Difficile. Periferia nord est di Roma e tutto quello che si portava dietro».
È stato bullizzato?
«Lì, negli anni Novanta, faceva parte del percorso di crescita. O eri vittima o eri carnefice».
E lei è sempre stato vittima?
«La verità è che, per difendermi, sono stato anche carnefice».
Difendersi da che cosa?
«Dovevo dimostrare la mia superiorità, sono cresciuto tra furfanti e delinquenti».
Chi le ha insegnato a distinguere il bene dal male?
«Mia madre, che mi chiedeva conto delle mie azioni».
Che cos’altro le ha insegnato?
«Ad accorgermi delle persone invisibili, a ricordarmi del prossimo. E me lo ha insegnato con l’esempio: ha ospitato a casa bambini di famiglie in difficoltà anche quando noi stessi eravamo disperati».
Come se le cavava a scuola?
«Ero brillante, il rendimento non era un problema».
Qual era il problema allora?
«Il problema era presentarsi in classe. Avrò cambiato dieci, quindici scuole: non frequentavo, facevo altro».
Che cosa faceva?
«Avevo sempre un’idea, un progetto in testa. Come adesso. Già da piccolo scrivevo i miei pensieri di notte: mia mamma mi trovava la mattina alle 7 chino sul foglio, credeva che fossi strano probabilmente».
Fino a qui non ha ancora citato suo padre.
«Ho avuto un rapporto abbastanza complicato con lui. Si è allontanato da noi, ho sofferto tantissimo. Ma crescendo si comprende, si perdona. Oggi sono un uomo di 34 anni, sto facendo il mio viaggio. La vita è ciclica e mi piace immaginarla come un tavolone che ospita tutta la famiglia, dal nonno ai nipoti, e col tempo quel tavolo scorre: il nonno se ne va, i suoi figli prendono il suo posto. Più scorre, più cambi modo di pensare, di valutare, cerchi di metterti nei panni di chi ti ha preceduto».
Ha raccontato di aver trascorso un periodo in una comune, a Val Melaina, Montesacro.
«Sì. Avevo 13 o 14 anni. Sono stato lì con mio fratello Federico, che ne ha cinque più di me e che mi ha fatto un po’ da padre. È stata una fase determinante, perché ho visto un’alternativa a un percorso classico. C’erano altri ragazzi: chi scriveva, chi dipingeva, chi incideva canzoni…».
Era felice?
«Ma che cos’è la felicità? È un momento. Quanti momenti felici abbiamo in un giorno? Quanti umori attraversiamo e quante persone diverse possiamo essere in 24 ore? Io, almeno una trentina. E alla fine siamo veramente felici? Non lo so».
Il suo primo ricordo musicale.
«Federico che suona la chitarra - aveva un gruppo punk - e le drum machine - gli piaceva la techno dei rave, delle fabbriche occupate, delle tribù delle feste illegali che come circensi si spostavano in camper il venerdì, il sabato e la domenica. Altro che clubbers. È stato lui a introdurmi in un ecosistema di supercreativi, che mi davano mille input: erano rapper, graffitari, street-artist… Io pescavo da loro, mi lasciavo contaminare mentre cercavo un posto nel mondo. Capitava anche che qualche gruppo dell’underground romano attaccasse con lo scotch il microfono al muro della mia camera, nella nostra casa distrutta, e registrasse dei pezzi. Erano i miei idoli, e dicevo loro: “Quando sarete famosi verrò con voi in tour”. Alcune band, in effetti, sono diventate grosse: i Truceklan, i Brokespeakers di Coez».
Lei come ha cominciato nel mondo della musica?
«Partiamo dal presupposto che sono sempre stato uno sveglio a costruirmi le opportunità. La prima volta che mi sono esibito, per esempio, ho affittato il locale, ingaggiato lo staff, compresa l’animazione delle mie amiche un po’ più grandi, messo insieme la line up degli artisti – della scena underground romana, abbastanza famosi – e lì mi sono infilato. Investivo tutto quello che avevo: nelle performance, negli studi di registrazione, nei video. Mi sono creato il successo pezzettino per pezzettino».
A un certo punto si è trasferito a Milano.
«E mi sono reso conto che fino ad allora avevo vissuto nella bolla della romanità, e lo dico con grande orgoglio. Quando sono passato da quella bolla alle multinazionali milanesi della discografia ho dovuto camuffarmi, cambiare modo di parlare, di pormi, di reagire. Due ore prima di ogni appuntamento andavo a comprare un vestito superpreciso e un paio di scarpe lucide, perché l’abito è il primo modo di presentarsi al mondo senza parlare. Era diventato una specie di rito, oltre che uno sketch tra amici».
Funzionava?
«Sempre. E aveva anche un nome: la profezia delle scarpe lucide. Ricordo appuntamenti in cui si complimentavano per quelle che indossavo e io ridevo dentro perché le avevo appena acquistate».
È vero che per un po’ ha portato in giro la sua intera vita in una scatola da scarpe?
«È vero. La usavo al posto dello zaino. Del resto un’auto è stata la mia casa, anzi più di una: la mitica Peugeot di Incoscienti giovani, e una Smart, con il bagagliaio che fungeva da armadio. Ma è successo nella fase furfante o puledro pazzo, quando mi pagavano per portare le persone in discoteca, quando cercavo vie più facili che sembravano scorciatoie e invece erano burroni».
È caduto spesso?
«Sì, mi sono perso. Il mio percorso è stato cinematografico. Ogni volta che oggi torno dove sono cresciuto e da uomo vedo le conseguenze spesso tragiche della periferia, della vita spericolata, penso di essere un miracolato. La mia grande fortuna è stata aggrapparmi allo spiraglio della musica».
È stato salvato dal talento?
«Il talento è una menzogna, non esiste. Esiste la grande insistenza, la dedizione assoluta, l’ossessione in senso positivo. Non si nasce bravi, si nasce innamorati di qualcosa».
È «la grande insistenza» che l’ha portata a Sanremo?
«Quando nel 2019 ho detto che ci volevo andare, nessuno era d’accordo: “Sei un pazzo, continua con la trap”. E invece io avevo Rolls Royce pronta da un anno e mezzo, anche due, non l’avevo fatta uscire perché avevo capito che meritava un palcoscenico importante. Quell’edizione era ancora alla vecchia maniera: grandi voci, grandi canzoni che non contemplavano un pezzo così. Prima, ci fu la sorpresa dei giornalisti, che al preascolto definirono la canzone la nuova Vita spericolata, dopodiché dissero che inneggiava al consumo di droga. A parte che era una scemenza, però non fu semplice da gestire. Ero un ragazzo che si approcciava al mainstream, al pubblico vero, a dieci milioni di persone, con un brano completamente diverso dal mio repertorio solito, e per un mese dovetti difendermi da un’accusa infondata. Pesavo 65 kg allora, sembravo un alieno. È stata un’esperienza quasi scioccante e pazzesca insieme».
Infatti è tornato al Festival l’anno dopo.
«Tutti a ripetermi: “Hai già fatto il tuo Sanremo migliore, non ti puoi superare”. E invece io sapevo che avevo tenuto il freno a mano tirato. Perché non avevo colto la potenza del format. Con Me ne frego ho costruito uno spettacolo in tre minuti, ho condensato un concerto di due ore in un solo brano».
Con tanto di tutina-shock entrata nella storia.
«L’ispirazione: le grandi star italiane, come Loredana Bertè che si presentò all’Ariston con il pancione. Volevo fare qualcosa che nessuno aveva mai fatto prima e ci sono riuscito».
Così Amadeus l’ha chiamata come superospite nel 2021 e poi in gara, di nuovo, nel 2022.
«Con Domenica. C’è un retroscena che nessuno sa: avevo preparato uno show incredibile a partire dai sacramenti. È vero che si erano raccomandati: “Lauro, se vieni, vieni tranquillo. Niente sorprese!”».
Invece.
«Invece, come al solito, senza avvertire nessuno, alla prima esibizione inscenai il battesimo (ride, ndr). Poi, per rispetto e per serietà, cambiai lo spettacolo: ero ospite a casa di un altro, era giusto così».
Spesso è stato accusato di essere blasfemo.
«È vero. Ma alla fine l’iconografia cristiana è la cosa più pop, soprattutto per noi italiani che veniamo educati al cattolicesimo. E poi ci sono Madonna, David Lachapelle e mille altri che hanno attinto da lì».
Lei crede in Dio?
«Certo: io credo in Dio, ma non credo nella Chiesa».
In che cos’altro crede?
«Nell’amore incondizionato, che è slegato dalle relazioni, dalla coppia».
È innamorato?
«Sono single, non voglio storie».
Perché?
«Perché hanno bisogno di cure e attenzioni, e io potrò darle solo quando non avrò distrazioni. Ho ambizioni gigantesche, sogno in grandissimo: mi piacerebbe arrivare all’estero, fare moda… Chi mi immagina a sbocciare bottiglie della nightlife milanese, si sbaglia di grosso. Sono un ossessivo compulsivo che coglie ogni opportunità. Non è avidità, è che credo nella mia passione, nel darsi a quella passione, capisce? È così che sono finito anche all’Eurovision Song Contest».
Era il 2022.
«Ero appena uscito da Sanremo e mi proposero il palcoscenico internazionale dell’Eurovision passando dal contest Una voce per San Marino. Ovviamente non mi sono tirato indietro. Peccato aver scoperto dopo che, siccome San Marino non è tra i cosiddetti Paesi fondatori, non paga per i suoi artisti. Quando mi hanno presentato il listino di tutto quello che si poteva fare sul palco, non ho battuto ciglio. Vi invito a riguardare la mia performance: sembrava il concerto degli Iron Maiden. Mancava solo il Boeing privato per atterrare a Torino. Insomma, mi sono frullato l’equivalente di un appartamento in cinque minuti. Ma è andata bene così: si perde e si vince. Anche i Festival di Sanremo mi sono costati altrettanto, un po’ meno l’ultimo: ho messo una maglietta e sono entrato in scena senza fronzoli e senza show. Però, se devo fare un bilancio, visto che sono imprenditore e produttore del mio progetto, è un bilancio positivo».
È favorevole a un percorso di educazione all’affettività nelle scuole?
«Favorevolissimo. Dovrebbero rendere obbligatorie anche l’educazione sessuale e quella finanziaria».
Chi ha provveduto alla sua di educazione sentimentale?
«Sono figlio del maschilismo, e lo rifiuto proprio perché l’ho conosciuto e poi perché sono stato cresciuto da donne: mia madre, le sue cinque sorelle, le mie cugine… Ho costruito me stesso sulla sofferenza, sull’abbandono, sulla solitudine, per cui ho convissuto con dipendenze emotive, mi è capitato di non sentirmi adeguato o all’altezza delle persone con cui sono stato. Però alla fine ho trovato la mia stabilità. E ho capito una cosa importantissima: certe persone non entrano nella nostra vita per rimanere, ma per cambiarci».
Nel suo futuro c’è una famiglia?
«Lo spero».
C’è anche il tavolo dei giudici di X Factor?
«Mi piacerebbe. Mi sono sentito nel mio habitat naturale».
Che cos’altro prevede il suo futuro?
«C’è il Circo Massimo, il 29 giugno e il 1° luglio, date già sold out, e nel 2026 ci sono i Palazzetti: sapere che 100 mila persone mi aspettano mi permette di lavorare in modo diverso per loro, senza dover rincorrere i numeri o il singolo estivo che piaccia. C’è anche la Fondazione Ragazzi Madre che sto strutturando, con la quale aiuto i ragazzi figli di sé stessi e della strada, che si crescono a vicenda e non hanno un posto nel mondo. Sono per forza di cose sensibile al tema dell’orientamento e della formazione».
Lei dedica tempo anche ai ragazzi che si trovano in ospedale o in comunità.
«Di fronte a questi giovani che non sanno come andrà a finire la loro vita mi imbarazza essere Achille Lauro. Faccio ciò che posso: una bambina che stava male è venuta in vacanza con me, la mia famiglia allargata e i suoi genitori».
Un sogno che per ora tiene nel cassetto?
«Forse la direzione artistica di Sanremo, ma non ho fretta. Per il momento lascio il compito a chi lo sta facendo benissimo, come Carlo Conti. Un pittore dipingerebbe lo stesso quadro per la sua intera esistenza? No. Ecco, io ho la necessità di cambiare quadro ogni volta, soprattutto di stupirmi».
Un consiglio per i più incoscienti giovani?
«Meglio disegnare le Madonne per terra per sempre, piuttosto che essere rinchiusi in un mondo che non sentite vostro. Chi volete essere nella vita? Chiedetevi questo».