Crescere meglio senza escludere
Articolo di Leonardo Becchetti pubblicato da Avvenire.
La globalizzazione che prosegue nonostante la guerra dei dazi, la crisi demografica e la rivoluzione tecnologica sono le tre grandi forze che spiegano le dinamiche del mercato del lavoro in Italia da ormai più di dieci anni.
E ci aiutano a leggere gli ultimi dati (+67mila occupati e + 97mila contratti di lavoro negli ultimi dati del mese di settembre) caratterizzati da luci ed ombre. Le luci sono un tasso di disoccupazione in progressivo e costante calo (dal 13,3% di novembre 2014 al 6,1% di settembre 2025), tasso di occupazione in crescita, un aumento consistente dei contratti a tempo indeterminato e una riduzione dei Neet, i giovani che non studiano e non lavorano. Le ombre sono che l’aumento dell’occupazione ha una forte componente nei lavoratori over 50, il fatto che il sistema-paese fatichi ad assorbire giovani qualificati, e poi salari reali che non crescono e posti di lavoro vacanti non coperti in crescita in molti settori: dalla sanità, dove mancano medici e infermieri, fino al commercio, dove sempre più spesso troviamo sulle vetrine dei negozi cartelli di ricerca di personale.
L’azione delle tre grandi forze sul mercato del lavoro spiega le tendenze di questi anni, ed è destinata a influenzarle anche nei prossimi. La globalizzazione significa che la filiera di produzione dei beni di consumo è frammentata in diversi Paesi: ogni componente è realizzata dove è più conveniente produrla. Se i salari medi del settore manifatturiero in India sono quasi 30 volte inferiori a quelli degli Stati Uniti, il “reshoring” di Trump è un’illusione, e la globalizzazione continuerà a produrre quel livellamento dei salari tra Paesi poveri ed emergenti e Paesi ricchi. Negli ultimi 30 anni i salari in Italia sono rimasti praticamente fermi, mentre nei Paesi dell’Est Europa sono cresciuti tra il 200 e il 300%. La globalizzazione è una forza che tende a frenare la crescita dei salari – da noi – nelle professioni con minori competenze. La crisi demografica implica che nei prossimi 10 anni per ogni 10 boomers che andranno in pensione entreranno nel mercato del lavoro 3 giovani. È inevitabile, dunque, che le imprese competano per assumere i nuovi e trattenere i vecchi occupati in un mondo nel quale il lavoro diventa sempre più scarso. In campo tecnologico, la seconda rivoluzione – arrivata a pochi decenni dalla prima – si annuncia ancora più dirompente. Con la prima rivoluzione della Rete, grazie ai motori di ricerca, abbiamo avuto a disposizione “bibliotecari” che portano sul nostro schermo istantaneamente informazioni e contenuti da ogni parte del mondo, aumentando a dismisura la velocità di circolazione delle conoscenze (e purtroppo anche la ridondanza informativa e le fake news). Con la seconda rivoluzione dell’Intelligenza artificiale viviamo un’accelerazione impressionante non solo della disponibilità, ma anche e soprattutto della rielaborazione delle conoscenze. La seconda rivoluzione è in pieno corso: non siamo in grado ancora di valutarne appieno tutte le conseguenze. Quello che è certo, è un fortissimo aumento di produttività, un processo Schumpeteriano di creazione e distruzione di posti di lavoro con saldo probabilmente positivo (non a caso il Nobel dell’economia di quest’anno è andato a studiosi che hanno approfondito tale fenomeno).
La potenza è nulla senza controllo. Cosa possiamo e dobbiamo fare per mettere questi grandi cambiamenti al servizio della persona e del bene comune? Primo, c’è bisogno di diffusione capillare delle nuove tecnologie e di formazione dei lavoratori per far sì che i loro benefici siano il più possibilmente diffusi nei diversi settori produttivi, di modo che lavoratori qualificati possano contribuire al processo. Sullo sfondo resta infatti il gigantesco problema della distribuzione e delle diseguaglianze, della povertà e degli esclusi. Secondo: la ripresa demografica, l’immigrazione e l’aumento della produttività sono le tre vie attraverso le quali possiamo far fronte alla scarsità di lavoro futura. Quanto sia importante e difficile la prima è tema centrale su queste colonne. In terzo luogo, è compito di una politica economica civile trasformare i grandi guadagni di produttività in benessere diffuso, combattendo diseguaglianze che minano la fiducia nelle istituzioni ed alimentano populismi e complottismi. Quarto, i grandi guadagni di produttività rendono teoricamente possibile un nuovo equilibrio virtuoso tra tempo di lavoro, tempo di relazioni e tempo di cura. La capacità di cogliere queste opportunità non è per tutti, e dipende da tutele e qualità del posto di lavoro. Ed è anche questa una delle radici delle diseguaglianze presenti e future che dobbiamo affrontare.
